lunedì 22 marzo 2010

Politicamente corretto alla grappa

Il politically correct è quella tendenza nata in america secondo la quale nel realizzare un programma televisivo si tende a ricorrere ad argomenti che non offendano nessuna fra le sensibilità di coloro che ne sono i potenziali spettatori. Secondo questa logica, la sensibilità della società nel suo complesso è data dalla somma delle sensibilità particolari e, politicamente corretto, è quel prodotto televisivo che non offendendo alcuna fra le sensibilità particolari, non va ad offendere la sensibilità collettiva. Il punto però è che molte delle sensibilità particolari contrastano fra loro, e se al gay non va di essere preso in giro, esistono altri per cui prendere in giro i gay è fonte di divertimento e comunque non c'è unanimità nel considerare cosa è censurabile e cosa no. Per questa ragione, una volta definito il politically correct, proliferano due filoni differenti ma per molti versi paragonabili: il politicamente scorretto e il politiclly correct ipocrita.

Il primo, già dal nome, risulta immediatamente essere una reazione al politically correct. Il sottinteso di questo filone è che sebbene pubblicamente si riconosca che alcune cose non vadano fatte, altresì le si considera un peccato veniale, se rapportato a qualche altra qualità di valore superiore. Prendiamo ad esempio due serie televisive appartenenti alla categoria: House MD e Dexter. Nella prima abbiamo un medico che insulta e tratta in modo assolutamente insensibile i pazienti, fa battute razziste e misogine, va a puttane ed è tossicodipendente. Però salva vite umane quando nessun altro riuscirebbe. Per questo suo merito si perdonano tutte le uscite politically scorrect. Anche la sua dipendenza da Vicodin, se da un lato è vista negativamente, dall'altro è giustificata dal dolore continuo di cui il protagonista soffre e comunque sia, dalla sesta serie la tossicodipendenza cessa di essere. Dexter invece è un serial killer, un uomo che ha una insana passione per il sangue e che gode come un matto a uccidere. Però il nostro non uccide giovani indifese, ma sempre e comunque brutali assassini che individua collaborando con la polizia, tanto che alla fine dei conti si è portati comunque a parteggiare per lui, a pensare che le sue vittime se lo sono meritato e che in definitiva col suo agire faccia un sostanziale servizio alla comunità. E' così infatti: a parole siamo tutti contro la pena di morte, ma segretamente quando vediamo un pluriomicida morire, se non siamo contenti comunque la cosa non ci tocca più di tanto. Ok, magari non tutti, ma un numero sufficiente affinché questa serie possa godere di un vasto consenso a livello di pubblico. Proviamo invece a pensare di associare a House o a Dexter un comportamento davvero esecrato dalla stragrande maggioranza della società come la pedofilia. Continueremmo a guardare di buon occhio un geniale diagnosta che salva centinaia di vite se nel frattempo fosse anche un pedofilo? Credo proprio di no. In definitiva questo genere di personaggi va sì contro quello che è il dettame del politically correct, ma non contro la vera sensibilità collettiva. Se lo facesse verrebbe rigettato.

Al secondo filone appartengono invece telefilm come Scrubs, Will e Grace e la madre di tutti i ppolitically correct, ossia Star Trek. In questo caso ci si trova di fronte a serie che in teoria seguono perfettamente le dinamiche della maniera, ma che in realtà si guardano bene dal puntare troppo l'attenzione su questioni sulle quali a parole la pensiamo tutti nello stesso modo, ma in realtà un po' meno. In Scrubs tutti fanno un sacco di sesso e ne parlano di continuo, ma mai che si veda una tetta. E' dichiaratamente gay friendly, tanto che spesso il protagonista è definito il più gay fra gli etero. Peccato che i protagonisti e i comprimari siano tutti etero, l'unico che forse è bisex, Il Todd, è dipinto come uno scemo completo che bazzica con i disadattati dell'ospedale, mentre il figlio gay del primario viene sì citato spesso, ma sempre a proposito di situazioni grottesche, che servono fra l'altro a mostrare il lato umano del dottor Kelso, che tutto sommato si trova a sopportare dignitosamente un pesante fardello. La serie fra l'altro è dichiaratamente antirazzista, tanto che molto spesso si fa riferimento esplicito alla cosa, simboleggiata dal fortissimo legame, quasi al limite dell'omosessualità (altrettanto esplicitamente più volte rigettata però) fra il protagonista e il suo migliore amico di colore. Non si vedono però coppie miste. L'unico episodio che mi viene in mente è quando nella sesta serie Denise si imbosca con uno specializzando di colore, ma non bisogna dimenticare che Denise è rappresentata praticamente come una ninfomane, che a seconda dei periodi si porta a letto di tutto, come ad esempio nel suo periodo “ciccioni”, cosa che comunque viene chiaramente presentata come strana. Su Will e Grace beh, abbiamo due coppie maschio femmina, con i due maschi gay. Uno è stereotipo della checca, l'altro è un po' meno effeminato, ma ovviamente nessuno dei due, in quanto gay, può disprezzare la moda, lo stile, la depilazione e Chorus Line. Inoltre sin da subito la coppia che dà il nome alla serie è rappresentata in modo tale che si sia portati a fare il tifo affinché finalmente lui, che del resto non è nemmeno troppo effeminato, si ravveda e si metta assieme alla sua coinquilina. Per finire Star Trek, dove fra tre secoli ogni conflitto sulla Terra sarà risolto, dove un russo e un giapponese saranno sul ponte di una nave la cui sigla inizia con USS e che sconvolse il mondo con il bacio interracial fra Kirk e Uhura. Nelle serie a partire da Net Generation abbiamo di tutto, Klingon che si sposano con donne Trill, Umani che si sposano con donne Betazoidi, viscidi Ferengi che bazzicano con donne non umane, ma decisamente umanoidi e avvenenti, ma guardate un po', il comandante Sisko della stazione Deep Space 9, uomo di colore, in tutto il quadrante alfa trova due donne, tutte e due umane e tutte due con la pelle del suo stesso colore... Senza parlare dell'omosessualità, che nel 24mo secolo pare sia assente da tutta la galassia.

Insomma, il politically correct, che si potrebbe tradurre tranquillamente con perbenismo, è evidentemente qualcosa che non ha attinenza con la sensibilità collettiva reale. Dove viene rispettato rivela chiaramente come le varie professioni di apertura e accondiscendenza non siano altro che una facciata, a sua volta specchio di ciò che davvero i loro propugnatori pensano, ma che si vergognano di affermare apertamente. Il politicamente scorretto, se da un lato lo si potrebbe vedere come un'affermazione del senso comune contro il perbenismo, d'altro canto il suo essere presentato apertamente come trasgressione, non fa altro che validare in ultima istanza quelle che sono le pubbliche professioni di fede. In buona sostanza, stando a quanto si può evincere da queste serie, l'America si vergogna di sé stessa.

Disintegrazione del linguaggio

Tra gli appassionati e i cultori della lingua si leggono e sentono spesso allarmati discorsi riguardanti il degrado in cui versa la lingua italiana. Sono essenzialmente due gli argomenti che vengono utilizzati per dimostrare tale degrado: il primo, più datato e urgente è quello della sempre più diffuso uso improprio di tempi e modi verbali, oltre che di altri elementi grammaticali come i pronomi relativi. Il secondo, meno urgente e figlio della recente rivoluzione informatica, riguarda la distruzione dell'ortografia ad opera specialmente delle generazioni più giovani. In entrambi i casi si tratta però a ben guardare di mutamenti superficiali, che non vanno a intaccare quello che è lo sopo principale della lingua, ossia l'elaborazione e lo scambio di informazioni.

Nel caso della grafia da sms infatti si tratta semplicemente di forme grafiche che divergono dall'ufficiale, ma che non alterano minimamente il valore fonetico delle parole che rappresentano.
Certo possono essere considerate poco chiare, esteticamente sgradevoli e quant'altro, ma resta il fatto che “x tt qll k si kiamano Marco” viene letta da chi scrive e da coloro verso i quali è diretta, esattamente nello stesso modo in cui sarebbe pronunciata se fosse scritta “per tutti quelli che si chiamano Marco”. Riguardo a questo tipo di espressione scritta si potrebbe obbiettare che l'omissione di alcune vocali renderebbe ambiguo il significato, ma si tratta dello stesso fenomeno che caratterizza da secoli la scrittura delle lingue semitiche, che sembrano non sentire la necessità di introdurre la notazione delle vocali, se non ad uso di chi le vuole apprendere da zero. In sostanza, si tratta di un fatto puramente grafico, che non riguarda in alcun modo la lingua nel suo aspetto fonetico e logico.
La questione dell'uso improprio dei tempi e modi verbali è sicuramente più sentita. L'origine dialettale delle sostituzioni del congiuntivo con il condizionale o l'indicativo ne ha sempre fatto una questione diastratica importante: l'utilizzo corretto di modi e tempi era ed è insomma una manifestazione di maggiore cultura, segno di distinzione fra colti e incolti, come anche di emancipazione dall'ignoranza per i poveri che accedevano alla cultura. D'altro canto si può vedere lo slittamento dei modi e dei tempi come una naturale evoluzione linguistica, simile a quella che ci ha portati a sostituire la declinazione dei casi con l'uso delle preposizioni, alla scomparsa delle particelle enclitiche e via dicendo. Il punto importante però è che dal punto di vista dell'informazione, l'utilizzo del condizionale in luogo del congiuntivo è assolutamente irrilevante: “se andrei al mare mi divertirei”, “se andavo al mare mi divertivo” e “se andassi al mare mi divertirei” comunicano precisamente lo stesso messaggio, differendo in realtà solo da un punto di vista estetico o diafasico. Il parlante colto potrebbe addirittura decidere di utilizzare tutte e tre le forme a piacimento, avendo così la possibilità di esprimere il medesimo concetto in tre registri linguistici differenti. Dal punto di vista stilistico si potrebbe quindi considerare questa varianza formale come una ricchezza anziché un impoverimento. Lo stesso identico discorso si potrebbe fare a proposito di tutte le caratteristiche del cosiddetto italiano neo-standard: si tratta sempre di fenomeni strutturali, che non vanno ad alterare il contenuto del messaggio e, che vengono viste in malo modo per ragioni puramente estetiche, le quali a loro volta possono avere cause storiche, sociali etc.

Insomma, le derive morfosintattica e grafica dell'italiano, che tanto spesso vengono bersagliate dagli strali dei puristi della lingua, a mio parere non sono fenomeni preoccupanti, per la semplice ragione che si tratta di mutamenti che riguardano la struttura con la quale viene comunicato il messaggio, non il contenuto del messaggio stesso. Se la conoscenza della forma con cui viene comunicata una serie di informazioni è necessaria alla comprensione, in questi casi non sussiste alcun reale problema, in quanto ci si trova di fronte a varianti mutualmente comprensibili e tutte attestate dall'uso comune. In altre parole un parlante incolto non avrà alcun problema di comprensione verso ciò che gli viene detto da qualcuno che utilizzi in modo corretto il congiuntivo, come del resto la professoressa di lettere, pur se inorridita di fronte al vostro “se io sarei partito prima avrei trovato traffico”, avrà capito perfettamente ciò che intendete dire.

Quindi tutto bene? No, a mio parere non è così. La lingua italiana si sta effettivamente disintegrando, ma non per le ragioni che mi capita spesso di sentire. A mio parere il vero problema sta nella disintegrazione del lessico, cosa che davvero va a colpire la base del discorso, cioè l'informazione, il contenuto. Al giorno d'oggi si usano un gran numero di vocaboli come fossero sinonimi, quando in realtà non lo sono. Questo porta da un lato a diminuire i significati esprimibili, dall'altro a ridurre la precisione della corrispondenza fra ciò che si vuole intendere e ciò che è effettivamente inteso. Se si chiedesse ad esempio quale sia il significato della parola “elegante”, la stragrande maggioranza delle persone sosterrebbe significhi “ben vestito”, quando in realtà essa è il participio presente di eleggere, ossia scegliere. Elegante quindi è quasi sinonimo di ricercato, mentre è comunemente inteso come sinonimo di ordinato, regolare. Un significato cioè del tutto diverso se non incompatibile. Allo stesso modo si utilizzano di consueto in modo indifferente i termini attraente e seducente, quando nel primo caso si dovrebbe intendere un qualcosa verso il quale le cose tendono, mentre nel secondo un qualcosa che le conduce scientemente verso di sé. Quasi il contrario. Di esempi del genere se ne potrebbero fare molti, ma credo questi siano sufficienti.

Questa perdita di distinzione fra significanti impedisce la giusta espressione dei significati, portando quindi all'utilizzo di parafrasi inutili e a volte alla difficoltà di comprensione perché sì, quando non si ha una corrispondenza biunivoca fra significante e significato, spesso il messaggio non arriva a destinazione così come dovrebbe e questo è un problema reale della lingua, al di là di inutili estetismi.

lunedì 1 febbraio 2010

stadi a prova di violenza

L'architetto Gino Zavanella ha scritto un libro in cui parla del modo in cui a suo parere vadano costruiti gli stadi, ossia ponendo al centro l'uomo spettatore, tentando di rendere possibile che l'avvenimento sportivo sia un momento di elevazione spirituale per coloro che vi assistono. Questa sua posizione è messa da lui stesso in contrasto con l'attuale "lagerizzazione" degli stadi, che per la violenza che ivi spessissimo alberga, sono armai divenuti più simili a carceri o caserme. Insomma, come molti architetti è convinto che la corretta progettazione degli ambienti possa influenzare il comportamento umano e in linea di massima lo penso anche io, ma non nel caso della violenza negli stadi in occasione di partite di calcio.

I nostri stadi vengono utilizzati per ospitare manifestazioni sportive e musicali. Nei casi delle seconde di violenza non si parla mai. Certo qualche incidente a un concerto può sempre succedere, ma appunto di incidente si tratta, non certo di scontri fra gruppi organizzati che vanno allo stadio appositamente per cercfare lo scontro. Ed è questo che avviene nelle partite di calcio.

Ora, qualcuno potrebbe già notare che nelle numerose manifestazioni sportive che avvengono negli stadi (atletica, rugby, calcio) e nei palazzetti che, a parte la drandezza sono di struttura analoga, la violenza si verifica solamente nell'ambito delle manifestazioni calcistiche e che quindi la colpa di tutto ciò non può essere in nessun caso imputata al modo in cui gli stadi sono progettati. Se nello stesso stadio, avvengono sia partite di calcio che di rugby e se le violenze avvengono solo nel caso del calcio la colpa sarà evidentemente di questo sport. E invece no. O meglio, non del calcio in sé.

Le manifestazioni che avvengono negli stadi, sono composte da due elementi principali: il pubblico e gli attori. Questi ultimi agiscono in contesti semplici, molteplici o duplici e il pubblico prende forma di conseguenza.

Nel primo caso abbiamo le esibizioni, come i concerti o gli spettacoli come ad esempio le cerimonie di apertura delle olimpiadi. In questo caso abbiamo un unico attore, anche se complesso e un pubblico che assiste alla sua azione. Il singolo componente del pubblico può personalmente apprezzare o meno l'esibizione, ma nel suo insieme il pubblico rimarrà compatto. Al massimo ci saranno cenni di dissenso con l'attore, ma il rapporto rimane tra quest'ultimo e il pubblico.

Nel secondo caso abbiamo le gare, come quelle di atletica o di ciclismo su pista. Qui abbiamo una situazione in cui gli attori gareggiano in un susseguirsi di eventi slegati fra loro, all'interno di ognno dei quali ciascun atleta concorre contro tutti gli altri, creando quindi una molteplicità che si riflette sul pubblico frazionandolo fra chi predilige il tale atleta, chi la tale specialità, chi parteggia per la competizione in generale, chi si annoia e via dicendo. Per questa ragione il pubblico è talmente frazionato da essere una massa quasi informe. Non c'è più come nel caso delle esibizioni un rapporto fra attore e pubblico, ma una miriade di rapporti particolari che si perdono nel caos generale.

Il terzo caso è invece quello degli sport di squadra. In questi sport abbiamo appunto due attori, le squadre, che competono tra loro per la vittoria in un evento singolo. Tutto il pubblico quindi conviene per assistere a un unico evento, che vedrà la vittoria di un'attore o dell'altro, o in alcuni casi il pareggio. E' quindi ovvio che il pubblico si dividerà in due parti compatte, ognuna delle quali si identificherà con una delle due squadre. La rivalità fra gli attori si riflette quindi sul pubblico e se gli sport di squadra non sono altro che semplificazioni della guerra, dove l'obbiettivo è la conquista del campo avversario, niente di più facile che tale guerra si riproponga sugli spalti.

A questo punto però si ritorna al punto di prima. Fra tutte le manifestazioni sportive a squadre, è col calcio che di gran lunga si assiste a episodi di violenza. Ma questo non dipende dallo sport. La ragione sta solamente nel fatto che si tratta dello sport magguiormente seguito e nel quale ci si identifica in misura maggiore. Gli scontri e la violenza non sono altro che l'estremizzazione degli stessi fenomeni che si verificano a una partita di pallacanestro o pallavolo: esultanze, cori, sfottò. Nel calcio tutto ciò avviene amplificato alla massima potenza e non ci vuole molto a capire che il coro di incitamento, il coro di irrisione, il coro insultante e la rissa a bottigliate sono solamente quattro gradini diversi della stessa scala: la scala dello scontro. Se per qualche ragione il calcio perdesse di popolarità a discapito del rugby o della pallacanestro, le risse fra ultrà si vedrebbero alle partite di questi sport e magari il calcio diverrebbe uno sport di sano e maschio agonismo come il rugby è oggi.

Per tornare al punto di partenza quindi, nonostante le buone intenzioni di Zavanella, perché la classica (e inesistente) famigliola possa andare felice allo stadio senza pericolo per i pargoli, occorre che questa vada a vedere un bel concerto o un meeting di atletica. Nel caso dello sport di squadra più popolare del momento, non c'è architettura che tenga; la tensione e gli scontri ci saranno sempre.

mercoledì 27 gennaio 2010

Lingue Straniere

Fra le tante cose che non riesco a capire del modo in cui funziona la lingua italiana, c'è la questione della pronuncia dei nomi stranieri. Ora, tutti sanno che alcune lingue straniere, per ovvie ragioni linguistiche, storiche e culturali, sono più o meno familiari di altre.

Riguardo a quelle più familiari, come l'inglese, il francese, lo spagnolo e il tedesco, la prassi comune in Italia è quella di pronunciarne i nomi nella maniera più aderente possibile al modo originale. Certo, anche chi conosce perfettamente la lingua in questione, onde evitare un fastidiosissimo effetto di superbia e affettazione, difficilmente parlando in italiano pronuncerà il nome come se stesse parlando ad esempio in inglese, ma comunque tenterà di avvicinarsi il più possibile alla pronuncia corretta.

Per quanto riguarda le lingue più esotiche, in genere si tende ad allineare la pronuncia secondo gli standard internazionali originati dalla grafia o dalla traslitterazione e diffusi dal giornalismo. A volte, come ad esempio avviene per i nomi cinesi o quelli turchi, ci si allontana anche di molto dal suono originale, ma la cosa però ampiamente comprensibile per via del fatto che la pronuncia originale è assai raramente conosciuta e colori i quali pronunciano erroneamente i nomi esotici lo fanno in modo inconsapevole e sono in genere dispostissimi a correggersi una volta conosciuta la pronuncia corretta.

L'approccio degli italiani quindi, che si tratti di nomi provenienti da lingue familiari o esotiche è il medesimo: si cerca di pronunciarli nel modo in cui si pronuncia nella lingua del paese di provenienza, compatibilmente con le proprie conoscenze della lingua (e di quelle degli interlocutori) e con la fonologia della lingua italiana.

Con la vastità che il fenomeno migratorio ha avuto nei secoli, capita con grandissima frequenza di avere a che fare nomi provenienti in origine da un determinato paese, ma che appartengono a persone che parlano una lingua differente da quella del paese in questione. Abbiamo ad esempio brasiliani madrelingua portoghese che portano un cognome tedesco, americani madrelingua inglese con un cognome polacco, madrelingua francesi con cognome nome africano e via dicendo. Ebbene qui l'atteggiamento italiano si trova di fronte a un dilemma: occorre pronunciare i cognomi in questione conformemente alle regole della lingua di origine o invece secondo i criteri della lingua parlata da chi tale cognome si porta appresso? La risposta che generalmente la lingua italiana dà, a patto di conoscere l'origine del cognome, è la prima.

Infatti. quando un cognome viene riconosciuto come tedesco, lo si pronuncia alla tedesca anche se appartiene a un americano, come ad esempio quello dell'attore Harvey Keitel che viene normalmente pronunciato “Kaitel” anziché “Kitel”, come lo pronunciano gli americani e probabilmente anche lui stesso. Capita spesso che la cosa non si verifichi, ma di solito la cosa è dovuta all'ignoranza della provenienza originaria e non a una volontà precisa. Trovo pertanto che in generale di fronte a questo problema, a meno che non si sia cristallizzato un uso differente, gli italiani si comportino adottando il criterio filologico. Certo si tratta di un criterio discutibile finché si vuole, ma è pur sempre un criterio che se applicato con coerenza ha la sua ragion d'essere, ed è coerentemente applicato anche quando si ha a che fare con italiani che portano un cognome straniero.

Decisamente schizofrenico è invece il trattamento che nel nostro paese si riserva ai cognomi dei moltissimi oriundi italiani sparsi per il mondo. Se infatti il cognome delle numerose personalità italoamericane viene sempre pronunciato all'italiana, quando si ha a che fare con un francese di origine italiana ecco che il cognome acquista l'accento sulla sillaba finale ed abbiamo i vari Michel Piccolì, Jean-Paul Belmondò etc. Lo stesso accade ultimamente anche per gli oriundi italiani in Sudamerica, con effetti a mio avviso decisamente comici: nelle telecronache calcistiche infatti Javier Zanetti essendo argentino diventa “Sanetti”, mentre l'omonimo Cristiano, suo ex compagno di squadra e pertanto spesso nominato nel medesimo contesto, in virtù della sua cittadinanza italiana può conservare la Z.
Questo comportamento quindi rappresenta un'eccezione al criterio filologico, ed è inoltre un'eccezione incoerente in sé stessa, perché non si applica verso i cognomi di origine italiana provenienti da qualsiasi paese estero, ma solo in alcuni casi.

La ragione di tutto ciò mi è del tutto oscura. Vista l'incoerenza interna all'eccezione, non può reggere la consueta accusa di esterofilia, perché altrimenti non continueremmo a chiamare Stallone il buon Sylvester, ma come gli americani diremmo “Stallòun”, eppure qualche ragione ci deve essere. Insomma, questo articolo non sviluppa una tesi ma si ferma prima, evidenziando un dubbio e ponendo un problema.